sabato 20 agosto 2011

Recensione "Ho ucciso Shahrazad"

”Vivere significa essere orgogliosi di quello che siamo. Da ragazza ero solita dire a chiunque mi ascoltasse che avrei preferito essere un maschio. Poi ho scoperto l’infondatezza delle mie parole quando ho sperimentato la meraviglia di essere quella che sono” (“Ho ucciso Shahrazad”, J. Haddad, Piccola Liberia Mondadori, pg.114)
Sarà che in quest’epoca di Indignati e donne Se-Non-Ora-Quando è naturale solidarizzare con “gli arrabbiati”. Sarà che chi scrive predilige le persone schiette e passionali a discapito dei borghesi benpensanti. Sarà, forse, per una serie infinita e inenarrabile di “sarà” partoriti dall’anima di una ragazza inquieta, ma il libro di Joumana Haddad, Ho ucciso Shahrazad, è una lettura che non può lasciare indifferenti. Perché è come una frustrata sulla pelle pulita e profumata; un flusso ininterrotto di parole e pensieri che ridesta dal torpore come una secchiata di acqua fresca in un torbido mattino d’estate. Svegliatevi donne: essere voi stesse senza scendere a compromessi si può. Questo, in sintesi, è lo slogan del libro. L’autrice si riferisce alla donne arabe che, nell’immaginario collettivo, creato dai film e dalla letteratura (le Mille e una notte in primis), sono rappresentate da Shahrazad. Il suo intento è quello di mostrare all’Occidente che non esiste solo un tipo di donna araba, ovvero la velata, sottomessa, priva di diritti, schiava della religione e del pregiudizio. “Ci sono donne emancipate anche in Medio Oriente”, urla la scrittrice dalle pagine del suo saggio. La società araba, fa notare la poetessa, è varia. Ci sono donne prone e donne trasgressive, donne colte, libere, e donne in catene. E lei appartiene alla prima categoria. L’autrice è un’intellettuale, una poetessa, una scrittrice specializzata in testi erotici. In Libano? Ebbene sì, in Libano. Certo nella cattolicissima Italia una donna come la scrittrice libanese non avrebbe un destino molto diverso. Se dai sui connazionali è considerata sboccata e provocatrice, una strega da ardere al rogo, da noi sarebbe “una puttana ottimista e di sinistra”, per citare Lucio Dalla. Con la sua prosa chiara, efficace, lucida e brillante, Joumana Haddad ci dimostra come il Medio Oriente non sia poi così differente dall’Occidente. E se c’è un sostrato comune tra cristiani e mussulmani lo si trova nel maschilismo imperante. In Italia negli ultimi tempi è quanto mai evidente. Eppure, come accade per i diritti umani, anche in caso di pari opportunità, noi occidentali sbandieriamo una pretenziosa superiorità sui mediorientali. Certo da noi la lapidazione è stata abolita così come altre mortificazioni di vario genere (eccetto che per l’Opus Dei). Ma le donne emancipate mediorientali devono scontrarsi con gli stessi stereotipi, gli stessi modelli di donnina dell’ottocento tutta casa, chiesa e famiglia o meglio frivolezze, carezze e giardino, con i quali fanno i conti le cosiddette “donne libere” nostrane che, a ben guardare, tutto sono meno che “liberate”. Per comprenderlo basta sbirciare il tasso di occupazione delle donne italiane (il più basso d’Europa), i criteri di scelta delle signore in politica e le discriminazioni sessuali nel mondo del lavoro.
“Tutte le doppie misure , le frustrazioni e i limiti di cui io e molti altri scrittori arabi siamo testimoni sono applicate alle donne molto più dispoticamente che agli uomini (…). Perché nel nostro caro vecchio mondo arabo è consentito parlare senza reticenze dei loro genitali(e anche di usarli senza reticenze). A loro è permesso, come fosse un bonus, parlare persino dei genitali femminili. La donna invece si deve accontentare di essere “la ricevitrice”benedetta delle parole degli uomini, il soggetto passivo dei loro testi. Perché non è nata per esprime ma piuttosto per essere ESPRESSA (…). Il filosofo francese Michel Onfray nel suo libro Il potere dell’esistenza ha scritto:’Quando la letteratura produrrà l’equivalente di Casanova e quando questo nome rivestirà un’accezione positiva della persona che descrive, allora e solo allora, potremmo parlare di una vera parità di sessi’”, scrive l’autrice a pg. 59.
C’è, però, un altro tabù contro il quale la scrittrice-giornalista araba si scaglia. Il teorema che vuole la donna intelligente, l’intellettuale, lontana da abiti eleganti e cerette. Al contrario, sostiene la poetessa araba, letteratura e moda dovrebbero andare di pari passo. Bellezza interiore e bellezza esteriore. Joumana Haddad, in fondo, afferma quanto la grande attrice italiana, Anna Magnani, diceva di sé stessa: ogni donna è mille donne insieme. E bisogna impegnarsi affinché possa esserlo. Ognuna deve lottare per affermare la propria identità fuori da ogni cliché. Ho ucciso Shahrazad, dunque, non è solo un reportage dettagliato sulla vita donne mediorientali né l’autobiografia di una scrittrice “assassina”, ma per il lettore è un’esperienza catartica. La mente si libera di alcuni canoni prestabiliti, lo spirito straccia le catene dei sensi di colpa, e la lettrice, soprattutto, chiude il libro rigenerata e convinta che, al di là delle latitudini, della cultura e delle proprie abitudini, bisogna mettersi in testa che essere donne non significa essere “prive di” e “ostacolate a”. Anzi, se ogni donna si convincesse che può essere ciò che vuol essere e che, in quanto persona, ha il diritto-dovere di autodeterminarsi come meglio crede, la condizione delle donne, in ogni parte del mondo, forse, comincerebbe a cambiare. Lettura vivamente consigliata alle ragazze incatenate. 

giovedì 28 luglio 2011

Racconto-reportage sul precariato


“Trovati un lavoro, mia cara”, sussurra suadente Anita. Ma è necessario che io parli con questa donna a prima mattina? Come se lei alla mia età faceva l’avvocato. Giornalaia eri e giornalaia sei rimasta. Ops…Volevo dire GIORNALISTA. Pubblicista. Con contratto part-time da professionista, in cui però non è prevista la frustrazione. Il giorno di capodanno mi telefona a mezzogiorno. ”Cos’hai da scrivere oggi?” abbaia. Ma cosa vuoi che scriva oggi che è il primo giorno dell’anno ed io mi vergogno? Avrei potuto raccontare della faccia che ha fatto mia madre quando ho portato a casa il primo contratto da lavoratrice a cottimo. 5 euro a pezzo. Che sia lungo o corto non conta. La paga è la stessa.”5 euro per uno scritto di cui non sei proprietario fino in fondo”,  argomentai. E lei, stranamente, mi chiese una spiegazione. ”In redazione,- attaccai- possono tagliare, cambiare, manipolare il tuo pensiero”. Mia madre rispose che questa è la gavetta. Che ci sono passati tutti. “Da qualche parte devi iniziare” , concluse. Ma mia madre non sapeva che io ho iniziato ben cinque anni fa. 

Scrivevo gratis per il primo giornale online della Capitale. Allora sognavo di diventare pubblicista. Pensavo che il giornalismo fosse una missione e collezionavo gli articoli di Oriana. “Sarò una giornalista-scrittrice!”. Sognavo ad occhi aperti e intanto lucidavo i tavoli di una ludoteca. Al giornale non mi davano un euro e le ritenute d’acconto dovevo pagarmele da sola se volevo ottenere il tanto agognato tesserino. Ero felice come un bambino sul motorino quel giorno. Averlo in mano era un’emozione. Non mi importava di essere dottore in filosofia prima e in lettere poi. Ero giornalista pubblicista. Questo mi bastava. Uscii tronfia dal Palazzo di Via Mazzini e mi incamminai a testa alta verso LA MISERIA.
A Roma l’unica alternativa alle collaborazioni volontarie era lo stage-non-retribuito-e-non-rinnovabile. Lo schiavismo legalizzato funziona così: l’università stipula un contratto con un’agenzia di stampa, loro ti sfruttano per sei mesi e infine ti gettano via come carta straccia. Sempre che tu non sia un parente di. Stefania adesso frequenta la scuola di giornalismo a Bologna, ma ha lavorato per un anno nella macelleria-stampa convenzionata con La Sapienza. Le avevano promesso un contratto. Poi è arrivato il galoppino di Alemanno e… “Ciao core”. La scuola di giornalismo è stata l’ultima spiaggia. Anche se lei sa bene che dopo 14 mila euro, 15 stage e 2 corsi di lingua, il lavoro fuori scarseggia.
“I miei colleghi pensano che diventeranno le grandi firme di Repubblica”,  mi racconta Stefania. Mi ha telefonato per chiedermi un libro in prestito e, come sempre, si lamenta. “Io ho detto a questi pivelli che nei quotidiani il lavoro non c’è e che si devono accontentare!”. Elemosiniamo cultura. E alcuni colleghi, per arrotondare, si vendono i libri ricevuti in omaggio dalle case editrici.
Daniela è una giornalista affermata. Quindici anni di ufficio stampa per una grande azienda italiana. Collaborazioni con la Rai e Il Sole 24 Ore. Tre libri. Ma il denaro non basta mai. La incontro ad un bookcrossing e lascio che si sfoghi. “Si rischia di rimanere collaboratori a vita! E quando la retribuzione non arriva mese per mese, a volte, è difficile mettere insieme il pranzo con la cena”. Nel pomeriggio Daniela farà ripetizioni di francese ad una bambina. Mi ricorda Sabrina, giornalista, scrittrice e autrice televisiva, all’occorrenza anche insegnante di lingue.
Sabrina ha appena finito di girare un documentario per Al Jazeera International ma sta per lasciare la casa in cui vive perché non può permettersela. “La guerra è solo psicologica!” sbraita. “Ti senti in colpa per ogni cosa. Ah naturalmente i figli, la famiglia, in queste condizioni te li scordi!”. Ceniamo discutendo di donne e politica e sul display del mio cellulare compare il numero di Miriam, una collega lucana. “Quando torni a Potenza sei invitata al mio party!” strilla. “Cosa si festeggia?”, domando. “Il rinnovo del contratto”. Cinque anni a 500 euro al mese, una serie infinita di vertenze sindacali ed ora esulta per un aumento di 50 euro. Mah.
“Ci vuole pazienza”, mi consola il mio caporedattore. A volte se non ci fosse lui a fermarmi farei una strage. Anita anche oggi mi ha fatto saltare la firma sotto i pezzi. Invidia, sostengono in molti. Sarà. Ma se non me ne fossi accorta avrei perso altre 15 euro. Senza contare le ore di chiacchiere, trattative, telefonate e i soliti insulti. Quelli poi non mancano mai. Tanto, come la metti metti, è sempre colpa di noi giornalisti, ops… Pardon…GIORNALAI.


sabato 27 marzo 2010

Ambient

     Crema antirughe Oil of Olaz.

Radio, script









Lufthansa





SFX: “That’s the way I like it”. Chiacchiericcio.
VF1: Vieni Andrea. Ragazzi c’è Andrea dell’amministrazione.
Voci: Ciao Andrea.
VF2: Ciao sono Mara del marketing, è qui la festa?
VF1:Sì. Entra.
SFX: Cantano in coro: “That’s the way, I like it, ah ah”
VM (in crescendo): Bene. Quando il capo non c’è i dipendenti ballano.
VF1: Direttore, ma lei non doveva tornare domani sera?
SPK: Con 120 voli giornalieri arrivi quando vuoi. Lufthansa ti assicura partenze da 17 aeroporti in Italia verso 190 destinazioni in Europa e nel mondo.










Kit Kat






SFX: Vento. Pioggia. Rumori di tempesta.
VF(sollevata): Finalmente, mio principe. Pensavo che non saresti più venuto a salvarmi.
VM: Da quanto tempo mi attendi?
VF(contrita): Ormai è quasi un secolo.
VM: O mia diletta, per arrivare da te ho affrontato decine e decine di mostri sputa fuoco. A bordo del mio piccolo veliero ho attraversato centinaia di mari in tempesta. In groppa al mio coraggioso destriero ho percorso boschi abitati da migliaia di spiriti ululanti e ho dovuto sterminare milioni di uomini innocenti. Il cammino è stato duro e faticoso ma, per amor tuo, non mi sono mai arreso e …
SFX: Tac. Rumore tipico del Kit Kat.
SPK: Fai un break, spezza con Kit Kat.
VF(a bocca piena, masticando): Va bene bello, adesso baciami e facciamola finita.





Crodino




VM(tono grave): Essere o non essere questo è il problema. Se…
VF(spazientita): Stooop. Amleto è matto. Matto, capito? Lo voglio più pazzo.
VM: ESSERE O NON ESSERE QUESTO E’IL PROBLEMA.
VF(isterica): Ho detto pazzo, non urlato. Ma mi senti?
SFX: Rumore di passi
VF: Dove credi di andare?
VM(seccato): Vado a bere un Crodino.
SPK: Crodino, l’analcolico biondo che fa impazzire il mondo.